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Edith Stein – Storia della grande studiosa di fenomenologia ed empatia – La percezione interiore e la percezione soggettiva dell’altro – III parte

 

Siamo giunti in questa che è la terza parte di riflessione sulla storia di Edith Stein. Entriamo così nei meandri di uno dei suoi studi più famosi: l’empatia.

“Secondo la definizione iniziale di Edith Stein, l’empatia designa “un genere di atti, nei quali si coglie l’esperienza vissuta altrui, cioè in relazione ad altre persone. E chiama assieme a Max Scheler l’atto dell’empatia nella propria esperienza: “percezione interiore”. A differenza del giudizio (Ein-Sicht), che è rivolto ad afferrare e comprendere argomenti, idee e concetti mentali di un altro (o le conseguenze causali di un fatto nella natura e nella storia), l’em-patia (Ein-Fühlung) indica un atto conoscitivo ­ oppure la somma di atti percettivi -, che è rivolto alla percezione soggettiva dell’altro, alla sua “esperienza” interiore e perciò anche alla sua stessa personalità. Ma in che modo avviene l’empatia, si può solo “descrivere” e le parole che la descrivono sono come delle finestre, attraverso cui siamo costretti a sbirciare la realtà significata. Possiamo intravedere l’empatia che avviene in un altro: un esempio evidente è rappresentato dalla stessa Edith Stein, che secondo Waltraud Herbstrith, era “per natura un ‘genio dell’amicizia’” ma possiamo anche intravedere, nella propria coscienza, la capacità di potersi empatizzare nell’altro, nel suo dolore e nella sua gioia. Forse è necessaria proprio l’empatia, per poter comprendere l’empatia. Possiamo, come afferma la stessa Edith, “anche empatizzare delle empatie; cioè, tra gli atti di un altro, che colgo nell’empatizzare, possono esserci anche atti di empatia, nei quali uno coglie gli atti di un altro. Questo ‘altro’ può essere una terza persona ­ oppure io stesso”. In questo contesto, Edith ha elaborato un criterio decisivo, l’unico che rende possibile l’atto empatico nell’altro essere umano e nei diversissimi contenuti del suo vissuto soggettivo: l’empatia mi è possibile solo nella misura, come una analogia, in cui sussiste una corrispondenza essenziale tra il mio essere e l’essere dell’altro. Edith parla dello stesso “typos”, che deve essere dato perché io possa empatizzarmi in lui. L’empatia è quindi possibile essenzialmente solo nel “typos ‘essere umano'”. Ma poiché questo typos dell’essere umano è simile, almeno nel suo carattere corporale, ad altri esseri, posso empatizzare in un certo grado anche nel dolore di un animale. “Quanto più tuttavia ci allontaniamo dal typos ‘essere umano’, tanto minore diviene la quantità di possibilità di attuazione” dell’atto empatico. E poiché nel campo dello spirito “ogni singola persona è per se stessa un typos”, potrò d’altra parte empatizzare in un’altra persona, solo nella misura in cui io stesso sono divenuta persona: “Solo chi si sperimenta come persona, come totalità che possiede un senso, può capire altre persone”; se no “ci rinchiudiamo nella prigione della nostra particolarità; gli altri ci diventano un enigma oppure, ancora peggio, li modelliamo a nostra immagine e distorciamo così la verità”. Al termine della sua prima opera Edith pone la questione: “Ma cosa accade con le persone puramente spirituali?”. Cioè: l’empatia è possibile anche nei confronti di Dio? In precedenza aveva concluso che ciò sarebbe “possibile indipendentemente dalla fede nella [sua] esistenza” e fondamentalmente aveva già risposto in modo positivo a questa domanda: proprio empatizzando. Perché “l’essere umano comprende la vita psichica di un altro essere umano, ma così comprende come credente anche l’amore, l’ira, i comandamenti del suo Dio”. Allo stesso modo aveva riconosciuto a Dio stesso, come persona puramente spirituale e non legata alla causalità psicofisica, la possibilità di empatizzare nell’essere umano: “. E non diversamente Dio può cogliere la vita [dell’uomo]”, in quanto “Dio, in possesso di una conoscenza perfetta non s’ingannerà mai sui vissuti degli uomini, come invece gli uomini si sbagliano tra loro sulla conoscenza dei reciproci vissuti”. Sarebbe allora anche possibile, che l’empatia in Dio operi di riflesso sul soggetto empatizzante costituendolo come Io? “Si danno a questo uomini che hanno creduto di sperimentare l’opera della grazia divina in un improvviso cambiamento della loro persona, altri che si sono sentiti guidati nelle loro azioni da uno spirito protettore”. Edith lascia aperta la risposta a questo aspetto della sua domanda: “Se qui si tratti di una vera esperienza vitale, chi potrà deciderlo?”. Edith conclude il suo lavoro di Dottorato con le parole: “In ogni caso mi pare che lo studio della coscienza religiosa sia il miglior mezzo per la risposta alla nostra questione, come d’altra parte, tale risposta sia del massimo interesse per il campo religioso. Nel frattempo lascio ad ulteriori ricerche la soluzione alla questione sollevata e mi risolvo in questa sede per un ‘non liquet’ (cioè: la cosa non è da chiarire ora)”. Ma è giusto anche dire che al centro della tradizione di fede ebraico-cristiana non c’è una dottrina su Dio, ma il Dio di Israele creduto come persona; per questo l’atto fondamentale del processo di fede umano adeguato a lui non è il semplice giudizio, ma solamente l’empatia.

Dunque, Edith ha descritto l’empatia come un “atto fondamentale” nella relazione con le altre persone e l’ha designata come “atto d’amore”. L’empatia dovrà quindi appartenere essenzialmente anche all’atto dell’amore di Dio e perciò alla “preghiera interiore” mediante la quale si realizza l’amore verso Dio. Nell’empatizzare mi interesso veramente dell’altro, in questo caso di Dio, del suo “valore”, della sua persona. La nostra religiosità corre altrimenti il pericolo di divenire “utilitaristica”, in un modo che già Mastro Eckhart (1260-1328) ha marchiato con parole molto chiare: “Tali uomini vogliono vedere Dio con gli stessi occhi con i quali vedono una mucca, e vogliono amare Dio allo stesso modo con cui amano una mucca. Tu ami una mucca a causa del latte e del formaggio e in ogni caso per il tuo proprio tornaconto. Così ritengono tutti coloro che vogliono amare Dio per la ricchezza esteriore o per la consolazione interiore. In realtà quelli non amano Dio, bensì la propria utilità personale”. Queste righe non hanno perso affatto in attualità ­ svergognano alcuni credenti delle nostre comunità, ma spesso anche i “pastori”, nella misura in cui a nient’altro si sa condurre se non a pervenire con i mezzi religiosi al “latte e formaggio”!

Edith direbbe: l’amore di Dio si realizza nella “preghiera interiore”, ma la “preghiera interiore” è essenzialmente empatia”.

Continua…

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